mercoledì 6 luglio 2011

Ci si mette in macchina una domenica mattina di fine maggio col sole fulgente della piena estate. Si attraversano rose ed ulivi a tutta velocità, prendendo colpi di colore negli occhi. Ci si sente felici. Le campagne isolate dell'entroterra sono più belle delle sudate spiagge dove si riversa un mondo mediocre di bagnanti. Siamo gli unici missionari che salgano verso la cima della collina abbandonandoci il mare alle spalle, intenti a macinare zolle di terra per capire i segreti di lunga vita della vecchia dell'eremo. Novant'anni zoppicanti e dediti alla preghiera continua, questa donna antiquata ci ama e ci regala ciliegie a volontà e noi la omaggiamo con una visita di cortesia. Questo posto isolato, però, ha oggi parole di saluto e ci fa ricadere addosso una grandiosa ombra come di carrubo sgangherato e sorprendentemente flesso in avanti che muore di lento degrado. E' l'esatta coscienza della storia, è la valutazione del limite e il suo ultimo raggiungimento. I ricordi diventano rovine tra rovi che straziano e sospendono gli attimi del cuore. C'è forse qualcosa che si muove nel ventre di mia moglie, qualcosa di nuovo che rinnova i cicli dell'umanità, ma il sorriso un po' spento di ciascuna pietra dell'eremo e la disincantata colpa dell'oblio hanno diviso la mia gioia. Sta tornando a Dio ogni mia proprietà: la premura materna della vecchia, le mani nodose che creavano attaccamento, le benedette volte in cui mi mettevo in ascolto delle sue parole. E le maledette posture lasciate sotto il carrubo nel tempo della passione. Tutto torna indietro o si catapulta troppo in avanti, tutto al di fuori della nostra portata. Rimane quella vertigine provata per aver messo un piede nella storia e averci perso definitivamente un pezzo. Mia moglie è qui che mi bacia ed è l'unica salvezza. 

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